Elisabetta Franchi

La bufera che ha colpito Elisabetta Franchi negli ultimi giorni è talmente vasta che non credo ci sia bisogno di presentazioni

L’imprenditrice si trova ad essere oggi più famosa per le sue recenti dichiarazioni, che per l’effettivo lavoro nella sua Maison.

Da madre lavoratrice, ascoltare le sue parole è stato strano – e la pezza è stata forse più strana della toppa.
Le dichiarazioni della Franchi sono un problema, ma non tanto per come si sta schierando il popolo. Come spesso accade in questi casi, ci troviamo di fronte a una fazione che dà ragione alla protagonista, e un’altra che le da contro. Ma è davvero così semplice la questione?

Mi sono laureata triennale in Ingegneria Elettronica ormai sei anni fa, conseguendo successivamente una magistrale in Biomedical Engineering, un corso di laurea dedicato all’Ingegneria Biomedica, completamente in inglese, lavorando e dovendo gestire anche una piccola malattia cronica autoimmune degenerativa che, per quanto innoqua, ha messo qualche difficoltà in più al mio percorso.

Una volta laureata, mi sono affacciata al mondo del lavoro che io consideravo “ufficiale”. Quello in cui mi sarei fatta una carriera nell’ambito che amo e su cui avevo sudato e faticato negli anni precedenti. Nel giro di un anno, con un po’ di fortuna e un altro pochino di fatica, ho anche trovato finalmente un lavoro che mi piace. Forse non proprio il lavoro che avevo pensato prima di iniziare l’università, ma un lavoro che mi fa sentire brava e, diciamolo, un lavoro che è anche soddisfacente.

Mi battevo per avere la mia indipendenza economica, per lavorare in un ambito che mi stimolasse, facendo qualcosa che per me fosse importante. Ero letteralmente terrorizzata dall’idea che un figlio avrebbe fatto finire tutto.
«Non puoi fare un figlio ora» mi dicevano. «Quando farai un figlio dovrai dire addio alla tua carriera». «Non sarai più in grado di gestire il tuo lavoro». «Sicuramente dovrai chiedere il part-time.»

Poi è successo. Io e mio marito un figlio lo volevamo davvero, quindi ho deciso di turarmi le orecchie e di provarci. Mi è stato insegnato che certi problemi capisci come risolverli solo quando te li ritrovi davanti. Mio figlio oggi ha un anno e mezzo e ha decisamente stravolto la mia esistenza, in modi che prima non immaginavo nemmeno possibili.
E il lavoro?

Grazie allo smartworking e ad una rete di colleghi di mentalità moderna, ho lavorato fino al nono mese di gravidanza, senza nessun calo di performance da parte mia. Essendo dipendente, ho potuto usufruire dei cinque mesi di maternità obbligatoria (che per la mia esperienza sono il giusto numero per riprendere possesso del proprio fisico e della propria mente dopo un cambiamento così radicale come la nascita di un bambino), al termine dei quali sono rientrata in ufficio con l’orario ridotto (come previsto dalla legge).

Tornare a lavorare, sebbene sempre in smartworking, per me è stato importante per iniziare a riprendermi un po’ di me stessa. Oggi sono tornata full time e trovo qualche difficoltà solo nel far combaciare gli orari dell’ufficio con le chiusure dell’asilo nido di mio figlio o delle vacanze della baby sitter.

Ma la mia è una storia come tante, con niente di speciale a parte forse la fortuna di avere una situazione che mi permetta di gestire bene lavoro e famiglia. Le parole della Franchi, però, non parlano di me. Non parlano delle donne che vogliono o hanno un figlio, ma che vogliono anche mantenere e coltivare la propria carriera. Le parole della Franchi sono un problema perché, è bene sottolinearlo, confessano l’inconfessabile, ciò che tutti sappiamo, ma che speravamo nessuno avesse più la faccia di dire.

Dicendo apertamente di preferire i manager uomini, la Franchi confessa un illecito. Per quanto tutti, per prime le donne, almeno una volta nella vita si sono trovate d’accordo con imprenditori che (a torto o a ragione) fanno avanzare gli uomini, dichiararlo come modo sistematico di proporre assunzioni e promozioni significa semplicemente confessare un reato – in quanto si prefigura una discriminazione di genere, basato oltretutto su una supposizione.

La dottoressa Franchi suppone, come tanti imprenditori. Suppone che una donna, solo perché nella pericolosa “età fertile” voglia o possa avere un figlio e, di conseguenza, decide che quella donna, che solo in quanto donna in età fertile allora automaticamente desiderosa di procreare, è meglio lasciarla indietro e aspettare “gli anta”, in modo che “se si doveva sposare si è sposata, se doveva fare figli li ha fatti, se doveva divorziarsi lo ha fatto”.

Insomma, una donna negli anta “ha già fatto tutto il circo” e l’azienda è fuori dal pericolo di dover vedere assentarsi una persona per cinque mesi. E suppone che un uomo, seppur nella stessa “età fertile” (stavolta non più pericolosa, perché l’uomo è maggiormente vincolato al lavoro), non voglia partecipare attivamente alla vita familiare.

«Eh, ma sai quante donne spariscono per anni una volta incinte?» È vero che tra maternità a rischio, maternità obbligatoria, aspettativa, allattamento e part-time una donna può assentarsi per diverso tempo dall’ufficio, ma quello che vorrei chiedervi è: cosa può portare una persona, in questo caso una donna, a studiare per anni, sgomitando e faticando ogni giorno, lavorando e impegnandosi il doppio dei colleghi uomini per dimostrare quanto vale, combattendo delle piccole grandi battaglie quotidiane che comprendono battutine e atteggiamenti più o meno gravemente sessisti, per poi arrivare al momento della gravidanza e decidere di interrompere la propria carriera, buttando anni e anni di impegno?


E non è forse tutto questo anche una discriminazione per i padri? Questi padri che oggi sono “fortunati” ad avere, quando va bene, ben dieci giorni di tempo per stare a casa con il nuovo arrivato o la nuova arrivata. Avere una disparità di questo tipo, obbliga i genitori fin da subito ad un meccanismo forzato in cui l’uomo torna immediatamente full time a lavoro e si occupa del proprio figlio solo nel “tempo libero” che gli avanza, mentre la donna (in assenza di alternative) avrà obbligatoriamente il ruolo di genitore che accudisce, perpetrando dei ruoli di genere anacronistici, appartenenti ad una società ben diversa da quella in cui viviamo oggi.

Non sarebbe meglio gestire l’arrivo di una nuova vita in famiglia in modo più elastico? In modo che ogni famiglia possa scegliere chi sta a casa e in che termini, ognuno in base a ciò che ritiene più opportuno per la propria situazione?

Magari dando anche ai padri il giusto tempo per abituarsi a un nuovo equilibrio, ad una nuova vita, a un nuovo ruolo, a dei nuovi orari, dei nuovi gesti, una nuova forma di stanchezza e di entusiasmo? Se la struttura della nostra società accogliesse diversamente le gravidanze, se sostenesse di più anche i padri fornendo loro un congedo adeguato alla situazione, se ci fosse una rete più solida a favore delle famiglie, se il lavoro fosse ottimizzato e orientato ad un equilibrio tra il profitto aziendale e il benessere psicofisico dei dipendenti, forse non ci sarebbe nessuna Elisabetta Franchi a fare scandalo per averci ricordato che non ci siamo ancora davvero evoluti.

Eliana Streppa

Author: ErikaStreppa

Erika. Blogger, riccia bionda naturale, amante dei cani e della natura. Mi interesso di Ambiente, Sport, Attualità e faccio anche qualche Recensione. Sono appassionata di Biocosmesi, sempre alla ricerca della Tabella INCI perfetta!